Il territorio delle DOC> Un po' di storia
 


I Castelli Romani debbono la loro denominazione alla presenza, in ognuno di essi, di almeno una residenza nobiliare. Anche se, nelle vicende storiche, alcune di esse sono state distrutte, comunque testimoniano l’origine feudale della zona.

La viticoltura ebbe progressiva espansione con le assegnazioni periodiche di terreni ai reduci delle guerre, ad iniziare dai partecipanti alla battaglia di Lepanto sino agli ex combattenti della “Grande Guerra” 1915-1918. Gli assegnatari, disponendo di piccoli appezzamenti di terreno, li investirono per produzioni destinate in parte all’autoconsumo e in parte, più intensive, al mercato locale.

La coltivazione dei vigneti nei Castelli Romani, pur provenendo da un’antica tradizione, ebbe grande sviluppo con l’espansione edilizia di Roma, poiché sparirono, progressivamente, tutte le vigne che in epoca pontificia esistevano anche entro la stessa città, ove erano famosi, per la pregevolezza del prodotto che ne derivava, i cosiddetti terreni casalini con vigneti impiantati sui ruderi delle case.

Con il tempo l’agricoltura dei Castelli Romani, famosa anche per le produzioni ortofrutticole, quali i broccoli di Albano, le pesche di Castelgandolfo, i cavoli e i carciofi di Velletri, si andò specializzando nella coltivazione delle viti; in un primo periodo coesisterono sia quelle da vino che quella da tavola, della cui importanza rimane traccia nel grandioso pergolato sull’Appia Nuova in località ancora denominata Uva di Roma. Successivamente, la viticoltura preferì rivolgersi quasi esclusivamente alla produzione di uva da vino in vigneti specializzati.

I vigneti dei Castelli Romani si estendono dalle ultime pendici delle zone pedemontane e risalgono i versanti dei colli sino a dove la loro giacitura consente la lavorazione meccanizzata del terreno.

Le zone scoscese e di più elevata altimetria sono investite ad oliveti così da formare una cornice di verde argentato nella zona soprastante i vigneti.

Nella fascia altimetrica ancora superiore, i colli che rasentano l’altitudine propria della montagna, sono investiti a castagneti. Si tratta di boschi impiantati dai Papi per sopperire alle esigenze alimentari delle popolazioni che, in montagna, non potevano usufruire dei frutti della coltivazione dei campi. Nel tempo i castagni da frutto sono stati in gran parte sostituiti in castagni da legname.

L’attuale assortimento delle varietà di vitigni utilizzate, è il frutto del lunghissimo e tenace lavoro di una speciale commissione che, alla fine del secolo scorso e inizi del ‘900, a seguito della distruzione dei vigneti per l’infestazione della fillossera, riordinò tutti i vitigni locali, definendone le caratteristiche.

Esistevano, infatti, varietà di vitigni che acquisivano diverse denominazioni a seconda del posto ove venivano coltivati e diverso era anche il loro metodo di allevamento. Il più diffuso era la “conocchia” costituita da 6 canne legate a metà altezza, sulle quali si sosteneva la vegetazione dei ceppi delle viti poste al centro di tale armatura.

I vitigni locali avevano diverse denominazioni, tra le quali: romano, pecorino, fil di ferro, procanico, francese ed altri ancora.

L’assortimento dei vitigni bianchi – di gran lunga i più diffusi - non era casuale, ma scelto in modo che i caratteri di ciascuno di essi si integrassero con quelli dell’altro nella produzione di vini particolarmente armonici, freschi e delicati. Così la Malvasia di Candia - certamente importata dai soldati che presero parte, al seguito di Marcantonio Colonna, alla battaglia di Lepanto - ha il dono di fornire un abbondante raccolto ed un vino con retrogusto mandorlato, mentre la Malvasia nostrale, o del Lazio o puntinata, pur conferendo un finissimo carattere aromatico al vino, non ha abbondante fruttificazione. Il Trebbiano toscano fu scelto perché dà una produzione delicata anche se abbondante e svolge la funzione di amalgamare gli aromi delle altre varietà. Il Trebbiano giallo, anche denominato Greco o Grechetto, ha una produzione molto limitata ma particolarmente delicata e rilascia aromi importanti per la piacevolezza del “bouquet”. Il Trebbiano verde conferisce serbevolezza ai vini e li caratterizza con il tipico profumo dei fiori dell’uva. Il Bellone e il Cacchione forniscono un’abbondante quantità di mosto. Il Bonvino o Bombino bianco veniva impiantato perché poteva essere anche utilizzato come uva da tavola e, se vinificato, fornisce, tuttora, il carattere di finezza ed armonicità, nonché un buon corpo.

Successivamente, questo assortimento a seconda dei vari ambienti e dei vari produttori è stato limitato soltanto ad alcuni vitigni. Ora vi sono due tendenze: l’una per il recupero dell’assortimento integrale delle varietà originali e l’altra per la introduzione di vitigni migliorativi o particolarmente richiesti dal mercato.

I vitigni rossi più presenti, sono: il Cesanese comune, che conferisce al vino un inconfondibile carattere di amabilità; il Merlot, che dà il sapore di fruttato ed è aromatico; il Montepulciano, che fornisce il corpo, il Nero Buono, o Nero di Cori, prezioso per la intensa colorazione che apporta al vino unitamente ad una gradevole delicatezza; il Sangiovese, molto adatto per assicurare un’abbondante produzione e l’attitudine all’invecchiamento, accentua l’odore ed il sapore di fruttato nel vino che ne deriva. Complementare a tali vitigni è, tra gli altri, il Cerasuolo, con l’inconfondibile sapore di frutta simile a quello della ciliegia.

Così, accanto ai vini DOC, di prima istituzione, con gli assortimenti previsti dai relativi disciplinari, ogni produttore immette sul mercato anche prodotti con la DOC generica “Castelli Romani”, di recente istituzione, e vini da tavola ora detti a indicazione geografica tipica (IGT) per soddisfare tutte le richieste degli acquirenti. Spesso queste ultime produzioni, raggiungono un alto livello qualitativo.


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